Vi sblocco un ricordo… audiovisivo: LOST IN GOOGLE

Dieci anni fa (2011) uscivano due webseries (= serie pubblicate sul web, in questo caso entrambe su YouTube) che a loro modo hanno definito una strada nuova ed alternativa nella realizzazione di prodotti audiovisivi in Italia.
Ve ne parlo in due articoli.

Nello scorso articolo vi ho parlato di Freaks! In questo, vi sblocco il ricordo di… LOST IN GOOGLE.

Lost in Google è una webseries interattiva: l’idea geniale dei The Jackal – gruppo di videomaker napoletani partiti da YouTube e diventati poi una vera e propria casa di produzione – è stata quella di sfruttare una delle caratteristiche della piattaforma per raccontare una storia. In questo caso, i commenti degli utenti sotto ogni episodio – i più simpatici ed originali – venivano presi in considerazione per sviluppare la trama stessa della serie: gli spettatori avevano quindi un ruolo attivo importantissimo, perché le loro interazioni su un episodio potevano servire a comporre la trama degli episodi successivi. Gli stessi commenti utilizzati venivano poi mostrati nell’episodio nel momento in cui gli eventi della storia ne seguivano i suggerimenti.

Si tratta quindi di una produzione ambiziosa e complessa, con una narrazione fluida che richiede non solo allo spettatore un coinvolgimento attivo, ma anche ai realizzatori una dedizione attenta e particolare.
Un lavoro che certamente non sarebbe stato possibile senza una certa “affiliazione” preventiva: nel 2011 i The Jackal erano già molto conosciuti su YouTube, pertanto potevano contare su un pubblico di fedelissimi pronti a partecipare a questo esperimento audiovisivo unico nel suo genere.

La complessità “tecnica” del prodotto è smorzata dal tono profondamente ironico e meta della serie, caratteristica da sempre marchio di fabbrica dei ragazzi della The Jackal.
Si parte da un “episodio 0” in cui si pongono le basi della storia: il protagonista Ruzzo Simone (in realtà si chiama Simone Russo, uno dei tanti blackout ironici dei Jackal) viene letteralmente risucchiato dentro la rete dopo aver cercato la parola “Google” sul motore di ricerca. Due suoi amici, Ciro (Ciro Capriello) e Proxy (Roberta Riccio) cercano di svelare il mistero che si cela dietro questa scomparsa. Da qui è un susseguirsi di incontri e avventure strampalate che prendono alla berlina tutte o quasi le caratteristiche del web di quegli anni: i meme, Twitter, le app di Google come Maps, i bug e le idiosincrasie della rete, ogni elemento che fino a quel momento ha caratterizzato il mondo di Internet viene smontato dai Jackal con una sagacia irresistibile.
Un sacco di ospiti e apparizioni inaspettate, tra i quali addirittura Roberto Giacobbo, Maccio Capatonda e Caparezza, fino a YoTobi e agli stessi interpreti di Freaks! (in una encomiabile collaborazione generazionale) arricchiscono un quadro originale e francamente abbastanza irripetibile.

Come accennato in precedenza, i The Jackal sono poi diventati molto altro: hanno saputo sfruttare il loro successo su YouTube per diventare una delle realtà audiovisive italiane più interessanti degli ultimi 15 anni.
Nel loro lunghissimo curriculum hanno all’attivo spot pubblicitari visibilissimi in tv, un lungometraggio per il cinema prodotto con Rai Cinema (dal titolo programmatico Addio Fottuti Musi Verdi), nonché una serie di produzioni spesso in collaborazione con la stessa azienda televisiva, realizzate per il Festival di Sanremo e altre manifestazioni importanti (non ultima la narrazione in tempo reale degli ultimi Europei di calcio, visibile su RaiPlay).
Quest’anno, a 10 anni esatti da Lost in Google, i The Jackal sono approdati anche su Netflix con la serie Generazione 56K, altra disamina sul mondo di Internet, ma con una visione più nostalgica.
I The Jackal sono insomma esempi viventi non solo di quanto il web possa essere proficuo se utilizzato con intelligenza, studio e tanto lavoro, ma anche di come la contemporanea produzione audiovisiva italiana non sia affatto priva di talento e possibilità.

Vi sblocco un ricordo… audiovisivo: FREAKS!

Dieci anni fa (2011) uscivano due webseries (= serie pubblicate sul web, in questo caso entrambe su YouTube) che a loro modo hanno definito una strada nuova ed alternativa nella realizzazione di prodotti audiovisivi in Italia.
Ve ne parlo in due articoli.

In questo, vi sblocco il ricordo di… FREAKS!

Freaks! (il punto esclamatico è proprio nel titolo) è una webserie il cui modello di riferimento è certamente la serialità televisiva anglosassone, in particolare la britannica Misfits. In essa, tematiche del genere supereroistico venivano trattate in maniera decisamente più “prosaica” e meno spettacolare rispetto ai coevi film Marvel e DC. I protagonisti erano infatti un gruppo di disadattati sociali che facevano i conti con super poteri spesso più imbarazzanti che cool, tra situazioni surreali quando non esilaranti e momenti estremamente drammatici e graficamente violenti.

Se tematicamente Freaks! si muoveva sulla stessa strada (tanto da omaggiare palesemente la serie di Howard Overman nel primo episodio della seconda stagione), il suo percorso produttivo era essai differente.
Fu infatti realizzata senza budget da una troupe di appassionati guidata da alcuni ragazzi romani, accumunati dall’essere dei noti YouTubers (=persone diventate celebri grazie a video caricati suoi loro canali YouTube: erano i primi tempi che queste personalità emergevano).
Troviamo infatti nomi come Guglielmo Scilla, in arte Willwoosh, Claudio Di Biagio, aka Non Aprite Questo Tubo, e Claudia “Cicciasan” Genolini, affiancati da giovani attori quali Ilaria Giachi e Andrea Poggioli. La regia era curata, oltre che dallo stesso Di Biagio, anche da Matteo Bruno, su YouTube Cane Secco.

Sfruttando anche la notorietà dei partecipanti come trampolino di lancio del progetto, fin dal primo episodio (pubblicato l’8 aprile 2011) Freaks! ha goduto di una prima stagione di grande successo, diventando un piccolo cult e un fenomeno manifesto di un web capace, ai tempi, di dare ampia voce anche alle produzioni dal basso.
Si può quasi affermare che da lì un po’ tutto il panorama di YouTube Italia sia cambiato. Se già in precedenza era stata tentata, attraverso la piattaforma, la via dell’autodistribuzione di titoli che aspiravano a competere con produzioni professionali di cinema e tv, fu con Freaks! che ne venne dimostrata la fattibilità.

Allo stesso tempo, Freaks! ha probabilmente segnato una linea divisoria tra un prima pieno di possibilità e un dopo più “chiuso”. Questo anche per via di un surplus di successive proposte, spesso di scarsa qualità e più alla ricerca di ricavi da partnership e sponsor (YouTube diventerà in breve tempo molto più severa a riguardo).
L’arrivo massiccio delle grandi distribuzioni dell’industria culturale sulla piattaforma ha poi fatto il resto.

La seconda stagione di Freaks! è già un segnale del cambiamento in atto: non più prodotto zero budget artigianale, ma inserita in logiche produttive molto più “classiche” – tra le altre cose, DeeJay TV (e quindi televisione in chiaro) che trasmette le puntate in contemporanea con l’uscita web.
La complessità raggiunta sul lato produttivo – ma anche narrativo – hanno forse scoraggiato un proseguo, nonostante fan e spettatori.

Ad oggi, Freaks! resta un progetto ammirevole, una proposta audiovisiva dal basso alternativa per molti aspetti – produttivo, distributivo, narrativo – ai modelli dei tempi (ricordiamo: era il 2011).
L’impressione è però che la sua lezione non sia stata molto seguita, che non abbia avuto epigoni. E che rischi di finire nel dimenticatoio, il che sarebbe un vero peccato.

Nel prossimo articolo: LOST IN GOOGLE.

Se smettessimo di lavorare

«Le guerre del futuro non saranno combattute su un campo di battaglia, né in mare. Saranno combattute nello spazio, oppure possibilmente in cima a una montagna altissima. In ogni caso, la maggior parte del vero combattimento sarà effettuato da piccoli robot. E oggi che andrete per la vostra strada, ricordate sempre il vostro preciso dovere: costruire e mantenere operativi questi robot. Grazie.»
IL COMANDANTE ai suoi cadetti
I Simpson, S08E25 – “La guerra segreta di Lisa Simpson”

Stavo guardando un film alla tv e si sono susseguiti due spot: uno era una semplice pubblicità di un aggeggio per rimuovere la polvere dai mobili (vabbé, avete capito di cosa parlo…), l’altro una vera e propria televendita per una impastatrice (la macchinetta che ti sbatte le uova da sola, per capirci).
Mi ha incuriosito che entrambe le pubblicità avessero come concetto di richiamo il fatto che sono strumenti concepiti per alleviare la fatica della persona – si utilizzava proprio la parola fatica in entrambi gli spot.
Ho pensato: beh, si sa, da che mondo è mondo l’uomo usa il proprio ingegno per creare strumenti che possano permettergli di faticare meno. L’obbiettivo della tecnologia è esattamente questo: fare in modo che l’uomo faccia sempre meno sforzi.
Se uno degli obiettivi principali dell’uomo è sempre stato quello di demandare a strumenti sempre più avanzati le fatiche che comporta il lavoro fisico, ne consegue che la sua volontà è sempre stata quella di avere più tempo e più energie da dedicare ad altro. Di certo ad altro che non sia fisicamene faticoso.
Vediamo coi nostri occhi, lo leggiamo negli studi sempre più frequenti, che, con l’avanzare della tecnologia, oggi più che mai rampante e quasi inarrestabile, sicuramente arriverà un giorno in cui non lavoreremo più, o comunque non svolgeremo più quei lavori che sono fisicamente usuranti.

Il lavoro nobilita l’uomo”, diceva – forse – Darwin. Il verbo nobilita era probabilmente inteso nel suo senso letterale, cioè diventare nobili: più lavori e più aumenta per te la possibilità di diventare nobile, cioè che si concretizzi un’ascesa economico-sociale.
Per molto tempo il lavoro è stato collegato alla fatica fisica, e la ricompensa economica che ne derivava era legata alla quantità di sforzo che quel lavoro richiedeva. Ma abbiamo visto che da sempre l’uomo si ingegna per diminuirla, questa fatica. Perché probabilmente i suoi veri obbiettivi sono altri. La cura di sé stesso, ad esempio, la ricerca della propria interiorità, il proprio sviluppo emotivo, sentimentale, intellettivo.
L’uomo è un animale sociale”, diceva Aristotele. E se il vero lavoro dell’uomo fosse quello di coltivare le proprie propensioni sociali?

Mi chiedo: davvero siamo sicuri che l’uomo debba lavorare e soprattutto dal suo lavoro debba dipendere la sua condizione economica, e quindi di sostentamento?
Voglio dire: se il lavoro nobilita l’uomo, allora perché continua ad inventarsi tecnologie per non farlo o farlo sempre meno? Non dovrebbe, no?
L’uomo è dotato di un ingegno, di una mente complessa come quella di nessun essere a questo mondo, ed è inevitabile per lui inventare, evolversi, progredire.
Verso cosa? Verso il miglioramento. Di cosa? Di sé stesso e della società che abita.
Questo progredire, allora, include anche il non lavorare più?

[E siamo sicuri che oggi il lavoro possa ancora nobilitare l’uomo – se mai è successo? O non vediamo forse crescere ingiustizia sociale ed economica, con gavette che non finiscono mai e scalate sempre più impossibili?]

Chiaramente si dovrebbe intendere che la tecnologia serve ad annullare la fatica del lavoro, non il lavoro in sé. Ma il fatto è proprio questo: da secoli si associa il lavoro alla fatica.
E se il lavoro deve per forza essere anche fatica, allora tanto varrebbe non costruire nulla per diminuirla, se davvero pensiamo che il lavoro nobiliti l’uomo.

Abbiamo sotto i nostri occhi la prova quotidiana che forse questo mondo del lavoro staccato dalla fatica fisica è già cominciato.
Sempre più lavori usuranti sono affidati alle macchine, e crescono gli occupati nei settori culturali, dell’intrattenimento, della comunicazione.
Crescono anche i disoccupati, però. Lo risolveremo mai davvero, questo problema?
Forse che non tutti in questo mondo complicato sono e saranno in grado di lavorare?
Pensiamoci. Quei lavori che un tempo potevano essere affidati a chi non aveva particolari competenze o capacità (bastava essere un uomo con un corpo e una testa per svolgere certe mansioni) stanno sparendo, proprio perché demandati alle macchine. Alle persone non impegnate in una qualche attività lavorativa normalmente intesa – cioè come ancora la intendiamo oggi – non sarà però impossibile svolgere altre attività, e non meno importanti.
Pensiamo al volontariato, ma anche a tutte quelle cose che il tempo libero può finalmente permetterci di svolgere e che riguardano la crescita personale (che già oggi vediamo sbandierare attraverso pagine social, gruppi di autoaiuto, frasi motivazionali e spinte verso la realizzazione, spesso a discapito del contatto sociale con l’altro). Leggere, passeggiare, guardare un film o una serie tv, stare con gli altri, accudire un animale, dipingere o scrivere, fare giardinaggio, impegnarsi in attività collettive, dedicarsi ai propri figli, ad un proprio familiare malato, fare sport…
Sono attività meno nobili? Se è così, ri-chiedo: perché l’uomo, dagli albori, s’inventa degli strumenti per avere più tempo per sé?
È altresì vero – per farla breve – che le macchine non si costruiranno da sole.
Il lavoro dovà evolversi. Ci sarà bisogno di nuove competenze, ad esempio di tecnici che sappiano bene come gestire le nuove tecnologie.
[La battuta all’inizio di questo post è un riferimento ironico a questo concetto, ma I Simpson sono sempre stati veggenti – e comunque sulle guerre non hanno affatto sbagliato!]

Ci sarà ancora lavoro, ma dovrà diventare altro rispetto a come lo pensiamo ora.
Già oggi tocchiamo con mano tante piccoli e grandi contraddizioni della vita lavorativa.
Molte persone lavorano ad orari massacranti, in nome di una produzione sempre più veloce e competitiva. Bisogna produrre, produrre, produrre nel minor tempo possibile, e allo stesso tempo produrre bene, perché si deve stare al passo. Ma si sa che la quantità e la qualità non vanno spesso d’accordo…
Nel frattempo, paradossalmente, ci sono frotte di individui che non lavorano proprio. Se è vero che la produttività deve essere elevata, non la stiamo gestendo nel modo giusto, perché facciamo lavorare molto di più chi un lavoro ce l’ha già mentre un sacco di persone non lavorano affatto.
Inoltre, questo modo di vivere non è per nulla salutare dal punto di vista psicofisico.
Ce ne stiamo accorgendo tutti, non stiamo bene, e continuiamo a dirlo.
Pure i nostri politici fanno discorsi relativi a questo tema (l’ormai classico “non dobbiamo tornare quelli di prima, dobbiamo essere migliori”). Eppure nessuno sembra volersi mettere all’opera per cambiare davvero questo stato di cose. Molte persone considerano il 2020 un anno perso perché non hanno lavorato, e non vedono l’ora di tornare ai ritmi forsennati di prima.
Esiste solo il lavoro. È il lavoro che ti qualifica.
Non solo non si ha tempo di pensare ad altro, ma spesso si ha persino paura di averlo, questo tempo.

Se davvero questa iperproduttività è necessaria, perché non facciamo che accumulare scarti e sprechi? Non solo in senso materiale, di cosa si produce, ma anche di “qualità” del lavoro stesso. Pensiamo a chi lavora negli uffici con turni di otto ore al giorno, ma di fatto di quelle ore arriva a lavorarne realmente la metà. Sta seduto per ore e metà della giornata la passa al telefono o su Facebook, perché di fatto ci sono dei momenti vuoti, in cui proprio non si fa nulla. Si ha molto tempo libero al lavoro, ci si annoia, si perde tempo, perché tempo ce n’è. E ci si domanda: “Ma non posso farmelo a casa, ‘sto tempo?”
Forse allora hanno ragione gli spagnoli quanto pensano di accorciare la settimana lavorativa…

Non sarebbe meglio organizzare la vita lavorativa in modo da abituarsi ad utilizzare degnamente tutto il tempo che abbiamo a disposizione?
Perché, strano ma vero, anche questa nostra esistenza così frenetica ha dei punti di… niente. Come è sempre stato per l’uomo, fin dall’alba dei tempi.
Siamo pieni di momenti morti. Quante cose si potrebbero fare in quei momenti!

ringrazio la sempre preziosa Vale Gentile per la riflessione che ha dato il la a questo post 😉

Tardi

Spesso, sempre più spesso, mi sento vecchio. Vecchio e tremendamente in ritardo. Mi sembra che ormai sia tardi, per me, per fare qualunque cosa, o quasi. Le belle occasioni, se sono passate, bisognava afferrarle prima, quando eri più giovane e avevi “l’età giusta” per fare certe cose. Non le hai afferrate, ed ora senti di averle perdute per sempre e che ormai non ne arriveranno più. Un’altra generazione si fa avanti, i giovani sono altri. Io non so bene cosa sono. Non sono davvero vecchio, ok, ma sono comunque troppo vecchio per tutta una serie di cose che “normalmente” una persona dovrebbe fare da “giovane”.

Quando manchi tanti “riti di passaggio”, o occasioni che normalmente si identificano con una certa età, rimani in un certo senso immaturo. Non credi davvero di essere adulto, credi di poter continuare a fare quelle cose che facevi prima, credi che sia normale sentirti ancora un ragazzino. Gli occhi si aprono quando vedi sempre più persone della tua età, magari che erano all’asilo con te, col posto fisso e dei bambini. Tu, che hai la loro età, ci rimani quasi male se provi a metteti nei loro panni: è molto facile farlo, di fatto, anche se non li hai frequentati, sei cresciuto come loro, e quindi con loro, hai affrontato le stesse fasi storiche, sei stato adolescente nei loro anni, ventenne nei loro anni. Eppure loro sono lì, tu invece sei ancora fermo.

Ogni tanto salta fuori la frase motivazionale tipo “ognuno ha i suoi tempi, non affrettare le cose, non paragonarti agli altri”. Tutto verissimo, per carità, ma non toglie quella cosa che, come sempre, ti accompagna in questa vita in cui l’empatia e i rapporti umani sembrano ormai roba vecchia: la solitudine. La sensazione sempre più viva di dover affrontare un viaggio senza cartina, senza esempi o guide, senza appigli di qualche tipo.

Chissà, magari fra dieci anni avrò capito che queste sono tutte cavolate. Dieci anni fa credo che nemmeno mi passasse per la testa di fantasticare su cosa sarebbe stato di me oggi. Era tutto troppo “in là” per poterci costruire una narrazione, anche banale. Il tempo è, ovviamente, passato troppo in fretta.
Forse, fra dieci anni, sarò ancora così, con le stesse domande, ma più consapevole che probabilmente è tutto qui, che non ci sono davvero delle tappe, ma che la vita è un susseguirsi di eventi per lo più casuali e che le esperienze che tu vivi dipendono molto anche dall’ambiente e dal tempo che la sorte ti ha lanciato addosso. Fortuna, casualità. Non tanto treni che passano e che devi capire se e quando prendere, quanto treni che forse sì, arrivano, ma forse no, forse non passano proprio dalla tua stazione. Forse nemmeno partono.

Una mia breve sceneggiatura: “Puffo”

Quest’estate ho scritto tanto. Sono riuscito anche a riprendere a scrivere sceneggiature.
Il mio percorso precedente (e quello che attualmente sto cercando di far ripartire) riguardava il cinema e l’audiovisivo: ho studiato cinema all’università e ho girato tanti video e corti (alcuni – anche se non tutti: giro da quando avevo 16 anni, quelli fatti durante l’adolescenza non li vedrete MAI! – li trovate qui). Ho girato anche un lungo (questo).
Quest’estate l’ispirazione non è mancata. Avevo anche cominciato a scrivere una bozza per un nuovo film, ma mi sono bloccato. In compenso, mi sono trovato molto bene con le cose brevi (anche nella scrittura del blog è andata così).
La sceneggiatura che pubblico risale a luglio (data prima stesura: 12 luglio; seconda stesura, cioè riscrittura e correzione: 24 luglio).
Mi scuso se la formattazione del testo può risultare un po’ ostica, ma ho cercato di mantenere degli standard che assomigliassero il più possibile a quelli di una vera sceneggiatura, che ha delle precise regole tipografiche.

Per chi non fosse pratico, ecco una breve guida.
– Solitamente una scena inizia con la numerazione della stessa, indicando il luogo in cui si svolge (es. 1. GELATERIA). Se si svolge in un ambiente “al chiuso” si scrive “interno”, abbreviato INT. (es. 1. INT. GELATERIA), se “fuori” è esterno, EXT. (es. 1. EXT. MARCIAPIEDE).
Dividendo con una barra, si indica il momento temporale in cui si svolge la scena, come il giorno, il pomeriggio ecc. (es. 1. INT. GELATERIA/SERA).
– All’inizio di una scena si descrive più o meno il setting, la situazione in cui ci troviamo, partendo da sinistra. I dialoghi, invece, sono al centro del foglio, e sono preceduti dal nome del personaggio che dice la battuta. Nel mio caso, i protagonisti non hanno dei nomi precisi, per cui troverete ad esempio LUI o LEI, seguiti, andando a capo, dalla battuta che dicono. Il grassetto delle battute è un modo che uso io per evidenziare la parte dialogata, ma non è obbligatorio.
– Possono esserci delle parentesi in mezzo ai dialoghi: è il caso in cui si voglia rimarcare un’azione che un personaggio svolge mentre parla. Le possiamo scrivere proprio nel dialogo. Nel mio caso, ho scritto queste parti in corsivo per renderle più evidenti. Possono anche esserci delle azioni tra un dialogo e l’altro, al che si torna a scrivere a sinistra.
– Solitamente le scene, e quindi la numerazione e l’intestazione del luogo e del tempo in cui si svolgono, cambiano col cambiare del setting geografico. Ad esempio: se la prima scena, la numero 1, si svolge all’interno della gelateria, per cambiare scena bisognerà che l’azione si sposti all’esterno, o comunque in un altro luogo, al che partirà la scena numero 2.

Spero che il tutto sia abbastanza chiaro (ma vedrete che dopo pochi secondi di lettura ci avrete già fatto la mano).
Una sceneggiatura non (ancora?) realizzata scritta su un blog… Chissà, magari può essere un nuovo format!
Fatemi sapere che ne pensate.

PUFFO
di Alessandro Sala
luglio 2020

1. INT. GELATERIA/SERA
LUI entra. Il locale è per lo più vuoto. LEI è sola dietro al bancone e sta facendo alcuni conti su un block notes.

LEI
(tenendo la testa abbassata,
concentrata sul block notes)
Buonasera, mi dica pure.

LUI
Ciao.

LEI alza la testa, riconosce il ragazzo che le sta davanti. Appare sorpresa di vederlo.

LEI
Ciao!
(Breve pausa)
Che… Che sorpresa.

LUI
Come stai?

LEI
Io bene… cioè… Bene, sì… Tu?

LUI
Bene, dai, non c’è male.

LEI
(dopo un’altra breve pausa)
Scusa, cosa ti faccio?

LUI
Vediamo…
(guarda, o fa finta di
guardare, il listino sopra la testa
dalla ragazza) mmm… Ma tu hai
mai assaggiato il famoso Puffo? Di cosa sa?

LEI
Non lo so… Di… Puffo!

LUI
Sono commestibili, i Puffi?

LEI
(Sorridendo) Di solito è tipo
sapore vaniglia o fiordilatte, poi
ci mettono un colorante azzurro.
Alcuni aggiungono anche altra roba,
non so, anice…ma di solito se
chiedi che gusto è il Puffo, la
risposta è fiordilatte.

LUI
Ho capito. Informatissima.

LEI alza le spalle.

LUI
Allora vada per cono da 3 euro

vaniglia e fiordilatte.

LEI
Cioè…? Vuoi quelli o…?

LUI
Sì, scusa, scherzo…
Voglio dire Puffo, Puffo.

LEI
Ok, scusa.

LUI
Niente, scusa tu.

Mentre LEI prepara il gelato, c’è silenzio.

LUI
Belli gli occhiali.

LEI
Non ci vedo quando scrivo.

Un altro po’ di silenzio.

LUI
Io… C’è il cinema in piazza, qui

(indica con la testa dietro di sé).

LEI
Sì, vero.

LUI
Io… Tu… Dovresti venire qualche

volta… Magari quando stacchi…
Non lo so, sarebbe bello.

LEI
Sicuramente, però stacco

tardissimo. Stasera poi ci sono
solo io, ho le mani legate, lavoro
un sacco e ho dei turni di merda.

LUI
(quasi sottovoce) Sì, lo so.

LEI
(Lo osserva per un attimo) Lo sai?

C’è una sorta di pausa, un silenzio quasi straniante, e per un attimo pare che il ragazzo non abbia parlato affatto.

LEI
Scusa?

LUI
Nient
e.

LEI gli allunga il cono gelato.

LUI
Quant’è?

LEI
3
.

LUI
Ah sì sì, scusa, giusto.

LUI mette una banconota da 5 euro sul bancone. LEI tira fuori una moneta da 2 euro dalla cassa e glieli allunga insieme allo scontrino.

LUI
Allora grazie.

LEI
Grazie a te.

LEI sorride, LUI la guarda e sembra ipnotizzato.

LEI
Ah, e buon film!

LUI
Grazie… E tu, buon lavoro.

LEI
Grazie!

LUI
Spero… Cioè… Spero che ti vada

bene… Con gli orari, cioè con i
turni, insomma… Che riuscirai a
liberarti, a fare delle cose.

LEI
Grazie mille, speriamo. Sei gentile.

LUI accenna un sorriso maldestro e fa per andarsene. Con la mano che tiene il gelato fa un cenno di saluto con le dita.

LEI
Ciao.

LUI esce dalla gelateria, LEI torna a scrivere sul block notes.

2. EXT. MARCIAPIEDE/SERA
LUI si sta allontanando dalla gelateria. Ad un certo punto si blocca, pensieroso.

3. INT. GELATERIA/SERA

LEI sta scrivendo, quando improvvisamente si ferma. Pensa. Alza lo sguardo leggermente. Il suo viso ha un’espressione come dispiaciuta. Dopo un po’, tira fuori da sotto il bancone un foglio con scritti degli orari di lavoro. Poi, si toglie gli occhiali ed esce dal bancone.

4. EXT. MARCIAPIEDE/SERA
LUI è ancora fermo, bloccato e pensieroso. Si sente qualcuno avvicinarsi correndo, alla sue spalle.

LEI
Ehy!

LUI si gira, la guarda avvicinarsi di corsa.

LEI
Senti, credo che sia meglio giovedì
.

LUI
Giovedì?

LEI
Sì, giovedì ho visto che posso

saltare il turno… Posso staccare
alle 9… Se vuoi… Cioè se vai a
vedere un altro film…

LUI
(a malapena nasconde l’entusiasmo) Sì! Ehm…

LEI
(sorride) Ok, se vieni a prendere
un gelato, me lo prendo anche io
e poi andiamo a vedere il film.

LUI
Perfetto! Avevo proprio voglia di un gelato!

LEI
(quasi ridendo) Sì, però intanto
mangia quello, che ti si scioglie addosso!

LUI guarda la sua mano, il gelato sta colando. Alza la mano verso la bocca e comincia a leccarlo.

LEI
Dai, allora giovedì. Ciao!

LEI si volta e velocemente si allontana, LUI a malapena riesce a salutarla.
LUI appare felice. Vediamo il suo viso soddisfatto mentre la guarda rientrare al bar.

STACCO SU

5. EXT. MARCIAPIEDE/SERA
LEI è ancora al bancone, indossa gli occhiali e sta facendo i conti. È LUI ad osservarla da fuori. Il gelato nella mano è ancora tutto intero.
LUI sospira, deluso, come risvegliatosi da un sogno.

?FINE?


Solitudinoia

Ed eccola di nuovo. La noialitudine, o la solitudinoia. È così sbagliato non avere niente da fare il sabato pomeriggio? C’è una bella giornata, chiaramente, e tutti – almeno stando ai social – tutti sono da qualche parte.

Nessuno risponde ai miei messaggi o alle mie telefonate – sono comunque poche cose, anche perché io stesso mi rendo conto di poter apparire totalmente inadeguato e rompiballe. Quindi mi ritrovo di nuovo sul divano, a non capire bene se continuare a fissare lo schermo del telefono o provare a sforzarmi di leggere o guardare un film. Esiste là fuori qualcuno che ha il mio stesso problema? Che già chiamarlo problema è qualcosa, di fatto non dovrebbe esserlo: il tempo libero, così a lungo, così spesso, è fortuna, un lusso che nell’800 ci avrebbero invidiato. Eppure oggi sei un fallito se non hai nulla da fare, mentre sei una persona realizzata, di successo, se hai il tempo pieno di impegni e non ti si trova mai perché corri da una parte o dall’altra.

Non esiste – probabilmente – un sistema di vita che mi renderebbe soddisfatto, dato che non esiste, in questo tempo, la mezza via: o ti muovi senza mai fermarti, o stai fermo senza mai alzarti. La corsa non fa per me, ma nemmeno lo stare fermo. La prima mi porta allo sfinimento, al perdermi da qualche parte con la paura costante di non riprendermi più. Il secondo mi fa sentire solo, inutile, col costante bisogno di avere qualcuno accanto con cui parlare.

Chi pensa che ai solitari piaccia sempre stare da soli sbaglia: siamo comunque persone, e ogni tanto il contatto umano ci serve, ne abbiamo bisogno e a volte fa talmente male sentirlo che vorremmo tanto urlare alla finestra: «Ehy tu! Ascoltami, ti prego! Sono qui, sto aspettando un tuo contatto, un tuo pensiero, una tua parola». Invece non arriva mai nulla. E ti ritrovi a cercare – ancora una volta – in te stesso la magra consolazione di una compagnia tutta interiorizzata. O semplicemente ad aspettare che il tempo trascorra, che passi un’altra giornata monotona in attesa di momenti migliori. Che difficilmente arriveranno, eh.

Il sassolino

è diventato un sassolone,
accumulando torti e ingiustizie
e sfighe in generale,
quel sassolino ora è una pietra
non preziosa, un macigno pesante,
una roccia ingombrante,
è sempre più difficile liberarsene.

E a dire il vero, più s’ingrandisce meno vedo come possa uscire dalla scarpa.
Ma forse non devo toglierlo,
forse devo cambiare scarpe.

B-C

Stasera era diverso. C’era qualcosa di diverso. No, il silenzio, il vuoto era sempre quello. Non aveva oggettivamente qualcosa di alterato, ero io che probabilmente lo ero. Non arrabbiato, scocciato. Solo, spaesato. Spaesato in un luogo che conosci da più di 30 anni, che vivi da più di 30 anni. Deve essere stato qualcosa che ho letto, qualcosa che ho visto. Che mi ha influenzato, ha mutato la mia percezione. Trent’anni sono tanti, anche quando fai finta di niente.

Ho sterzato per raggiungere la ciclabile, ne sarei sceso poco dopo. Il viaggio ha richiesto più tempo del previsto, perché poco davanti a me una Peugeot bianca ha fatto manovra per tornare indietro. Un pentito, probabilmente, qualcuno che ci ha voluto provare ma ha capito subito che non ne valeva la pena.
Ho rivisito il pandino bordeaux di pochi minuti prima, anche lui in uscita dal mondo piccolo. Ho girato anche io, sono tornato indietro, sulla strada, per svoltare a sinistra, verso casa tua. Non mi sono avvicinato più di tanto, come del resto faccio spesso. È sempre tutto chiuso da te, le finestre con le tapparelle verdi sono la mia unica vista quando guardo la casa.

Ho sterzato bruscamente, e stavolta per poco non cadevo, solo per avvicinarmi ad un gatto bianco e nero che se ne stava in mezzo alla strada, padrone della notte. Non molto amichevole, non con me almeno, nonostante abbia tentato un approccio leggero, mite. Ma forse non era abbastanza mite: perdonami gatto, non avevo voglia di rallentare i miei movimenti e alleggerire la situazione così tanto da permetterti di fidarti e avvicinarti.

[Mi sono reso conto che ciò che scrivo è frutto di una elaborazione successiva, che non potrà mai restituire davvero il sentimento. (Un po’ come quando vorrei filmare ciò che vedo, che mi sembra così affascinante, e poi quando lo rivedo registrato appare così banale). Ci vorrebbe una macchina, un’app che ti permetta di scrivere quel che provi proprio mentre lo provi. Sarebbe ovviamente fonte per un qualche romanzo distopico].

Da via Giotto a via Einaudi è tutta dritta, tolti gli stop. Non l’avrei comunque fatta in modo regolare, infatti ho girato a destra vicino al parco “delle feste”. Sperando di vederti, chissà. (Ammetto che per un attimo ho sognato mi chiamassi mentre mi allontanavo).
In via Einaudi mi è passato di fronte un vecchietto in bicicletta. Alle 11 e mezza di sera. Quello sono io che mi dó un’anticipazione delle puntate future.

C’è puzza di merda stasera. Come devono pensarla, e magari dirla, quei ragazzini, 20 forse, che al parchetto se ne stanno come tutte le sere di questa estate infinita?
La puzza devono averla sentita anche quei due giovani, lei e lui, che si incamminavano per il vialetto quando sono passato presso il parco Arcobaleno (sì, questo posto è pieno di parchi). Lui con la felpa grigia e il cappuccio a mo’ di rapper. Sei giovane davvero, non hai trent’anni, giusto? No perché non si capisce più bene…
La puzza può fare schifo, quando ci fai l’abitudine dici solo che è puzza. Ne senti dovunque, in questi luoghi terreni e piatti, da quando sei nato. Non significa, ovviamente, che ti piaccia, ma ci hai fatto l’abitudine.

Tempo

Tu ora credi di avere tutto il tempo del mondo davanti a te. Ed è così.
Sei giovane, e io lo posso dire, perché sono (più) vecchio. Però, proprio perché sei giovane, non consideri – non puoi farlo – che il tempo così come lo percepisci adesso non è il tempo che percepirai quando ti chiederai “Dov’è finito il tempo che avevo?”

(Bisogna avere più rispetto del futuro).

Invecchiando si ha come questa strana – terribile – sensazione che il tempo vada sempre più veloce.
Ti ritrovi a 35 anni e ti senti ancora un ventenne, perché sembra ieri che ne avevi 25, di anni. Hai 35 anni e là fuori ci sono persone di 7 che sono diventate maggiorenni, e tu sei vecchio, più vecchio, e il tempo che avevi, che credevi di avere, non torna, non tornerà mai.
Tutto quel tempo che credevi di avere, a cui lasciavi tutte le decisioni. Ogni volta che ci dovevi pensare, ti dicevi che c’era ancora tempo.

Arriverai ad un punto – e non è detto che siano i 35, possono anche essere i 30, o magari i 50 – in cui ti accorgerai che quelle cose che hai tanto rimandato saranno rimandate per sempre: ci ha pensato l’attesa a fregarti, il tuo tergiversare, rimandare, credere che ci fosse tempo, ancora tanto tempo. Come se il tempo fosse quell’entità che prende le decisioni per te.
L’ha fatto, in effetti. Non hai preso decisioni, ora non le potrai più prendere.

È ironico, in fondo. L’abitudine a rimandare rende chiara la strada: se intendi rimandare, se è questo che fai continuamente, bene, allora questo farai per tutta la vita.
Non importa come ti senti, tu prima hai deciso di non decidere. Hai pensato di non pensare. Perché cambiare ora, quando hai messo in chiaro che è quella la strada che volevi intraprendere?
Perché ti arrabbi, te la prendi col tempo? Lui ha solo seguito il tuo volere.
Lui comunque non esiste, sappilo. Esisti tu e quello che decidi. Se non decidi, hai già deciso.